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L’eredità tradita del Sessantotto

A distanza di mezzo secolo, proviamo a delineare un quadro dello scenario odierno, per poi, in ultima istanza, provare a stabilire quali effetti a lungo termine ha avuto il Sessantotto (…) sulla comunità studentesca, sulla concezione stessa del dissenso, e sulla funzione dell’ideologia nel dibattito politico.

di Fausto Desiderio

È studente di Giurisprudenza alla Sapienza. Impegnato nella rappresentanza studentesca. Cerca di combattere la propria ignoranza.

LA SCUOLA: DALLA MILITANZA ATTIVA ALL’ATTUALE NICHILISMO

Farsi un’idea degli Anni di Piombo è complicato, per usare un eufemismo. Tuttavia, diventa ancora più complicato se non si include nell’equazione il Sessantotto. Lungi da me definire gli Anni di Piombo una conseguenza diretta dei personaggi e degli eventi che abitarono lo spazio temporale dell’anno 1968, cercando di mantenere una visione d’insieme – operazione complicata nell’analisi di anni mai come altri caratterizzati da sangue, misteri e sovrapposizioni conflittuali di poteri intestini – si può però affermare con solida convinzione che la più ampia stagione di proteste giovanili che va sotto il nome di Sessantotto ne fu il catalizzatore decisivo. Da studente delle scuole superiori, appassionato di storia e politica, sono stato genuinamente sorpreso al momento del primo incontro con gli Anni di Piombo, nello scoprire una comunità studentesca così rumorosa, giudiziosa, e per molti versi centrale in una delle fasi – seppur drammatica – di cambiamento più intense della storia repubblicana.

Fu una mobilitazione senza precedenti e finora ineguagliata, che trascese i confini nazionali e continentali, nelle fabbriche e nelle piazze, ma soprattutto nelle scuole e nelle università, da dove le proteste si erano nutrite di una forte carica ideologica, che aveva come antagonisti principali il capitalismo e la società dei consumi, ma anche il socialismo per come si era evoluto storicamente, o ancora il patriarcato e la repressione della sessualità. Risulta estremamente complesso analizzare tutte le anime che composero il Sessantotto, che nella sua eterogeneità radicava la sua forza. L’unico comune denominatore è la giovane età della stragrande maggioranza dei manifestanti, e la funzione di officine ideologiche assunta dai collettivi studenteschi presenti nei luoghi d’istruzione, in particolar modo in alcune facoltà universitarie (in Italia, Sociologia a Trento o Architettura a Roma assunsero considerevole rilevanza, fra le altre).

Il termine “ideologia” qui non va inteso nell’accezione negativa del termine (falsa coscienza della realtà e narrazione esclusiva e solipsistica) che sembra esser ormai ad utilizzo maggioritario e standardizzato, bensì come l’aspetto di massa delle concezioni filosofiche, ovvero la “fase intermedia tra la filosofia e la pratica quotidiana”, come Gramsci scrisse nei suoi Quaderni a proposito di come sarebbe dovuta avvenire la presa di coscienza di classe e l’organizzazione dei movimenti operai. L’ideologia è quindi, per gli studenti che presero parte al Sessantotto, un mezzo necessario per veicolare le proprie idee in maniera quanto più capillare possibile, smussandone gli aspetti puramente dialettici e teorici che non sono funzionali a una mobilitazione così vasta. È pur vero che il Sessantotto italiano ebbe gli strascichi peggiori, e alcune minoranze di studenti oltrepassarono di gran lunga il confine fra ideologia e fanatismo, fra “filosofia della prassi” e dogmatismo. Ma, tornando al focus del discorso, al di là di esiti collaterali e collegamenti semplicistici, la comunità studentesca in senso lato si dimostrò essere la frangia di popolazione più riflessiva, più critica nei confronti delle autorità e delle istituzioni, capace di immaginare una scuola più aperta e plurale, meno rigida e senza conflittuali contrapposizioni fra docenti e studenti. E, poiché la scuola rappresenta un vero e proprio microcosmo, significa che quegli studenti perseguivano una visione del mondo.

Quali erano le richieste? Forme di rappresentanza studentesca nei processi decisionali, per limitare l’autorità di docenti e organi amministrativi. Istituzione della novità del dipartimento – in termini pratici, l’unione di più cattedre d’insegnamento – per poter condividere risorse, strutture e biblioteche con gli studenti delle facoltà più affini. Ancora, immaginavano un’università che fosse prima ancora che dispensatrice di lauree, presidio territoriale di cultura e ricerca. La visione del mondo dei giovani studenti “sessantottini”, che si rispecchia negli argomenti di protesta appena citati, rappresentò terreno fertile per molte altre componenti sociali finallora in secondo piano: i vari movimenti femministi e operai riuscirono facilmente a trovare, nelle mozioni degli studenti, delle intersezioni su cui poter e dover fare fronte comune. Tant’è vero che parallelamente al risultato ottenuto con i decreti delegati nel ’73 e nel ’74 sulla nascita delle rappresentanze studentesche, il riflesso dei moti del Sessantotto si concretizzò anche in numerose svolte sociali: nel ’70 la legge sul divorzio, nel ’75 la riforma del diritto di famiglia e nel ’78 la legge sull’aborto, per citarne alcune.

Facciamo un brusco salto in avanti fino ai giorni nostri. Sono passati, dagli ultimi atti di quelle proteste, 50 anni. A distanza di mezzo secolo, proviamo a delineare un quadro dello scenario odierno, per poi, in ultima istanza, provare a stabilire quali effetti a lungo termine ha avuto il Sessantotto – e con il Sessantotto gli Anni di Piombo e l’estremizzazione della dialettica politica – sulla comunità studentesca, sulla concezione stessa del dissenso, e sulla funzione dell’ideologia nel dibattito politico.

Non disponendo degli strumenti, delle conoscenze e delle battute necessarie ad abbozzare un’analisi sociologica di cinquant’anni di storia d’Italia, il lettore converrà con me sulla preferibilità di una testimonianza personale, che possa fornire una rappresentazione della realtà quanto più verosimile, dal punto di vista di uno studente impegnato. Oggi, gli studenti dispongono di notevoli opportunità assembleari e di rappresentanza. Gli studenti delle scuole superiori, ad esempio, sono rappresentati abbondantemente sia a livello interno che su base provinciale, regionale e nazionale. Nel Consiglio di Istituto – organo collegiale che prende la maggior parte delle decisioni di carattere amministrativo e programmatico – è presente una rappresentanza studentesca; gli studenti godono di numerose assemblee, su livelli diversi, in cui rilevare le criticità, discutere e giungere a sintesi: assemblee di classe, di Comitato, di Istituto. Pochi sanno – ahimé – che il sistema delle Consulte Provinciali degli Studenti, con la relativa struttura di coordinamento verticale, è uno dei sistemi di rappresentanza studentesca più avanzati del mondo, dal punto di vista teorico-legislativo.

Sul versante universitario, nei vari Consigli di Facoltà, di Dipartimento, d’Amministrazione – e potrei menzionare altre sedi di discussione – la comunità studentesca ha tutte le carte in regola per poter avanzare richieste, far sentire la propria voce e ottenere ottimi risultati. Tuttavia, v’è un profondissimo problema generazionale di partecipazione. Se nel Sessantotto il problema era l’eccesso di foga, di spinta ideale e di chiasso a fronte di una quasi totale assenza di opportunità di confronto presso le istituzioni scolastiche e politiche, oggi la situazione si è sostanzialmente ribaltata.

Mi concentrerò sulla realtà che conosco meglio, quella delle scuole superiori (pur sottolineando che lo scenario universitario non differisce di gran lunga): i numerosi spazi assembleari esistenti, che instaurando relazioni reciproche potrebbero formare un fervido panorama di elaborazione politica e sociale, stanno svuotandosi completamente di senso; ridotti dagli studenti – e da una buona fetta dei docenti, alla faccia dell’Educazione Civica – come ottime opportunità per allungare il weekend o un ponte festivo, passare una mattinata al bar o recuperare qualche ora di sonno. Il momento delle elezioni e della propaganda è in questo senso emblematico. “Programmi elettorali” in cui, spesso e volentieri, l’ultima cosa di cui ci si preoccupa è la scuola. I punti accessori vanno per la maggiore: felpe d’istituto, partite di calcio, Mak π. Come se la coscienza politica e ideologica – chiaramente in continua evoluzione per la definizione stessa di “studenti” – che aveva caratterizzato questa componente sociale fino a qualche decennio fa fosse completamente sparita.

Come accennavo prima, la questione è generazionale ed esula dall’ambito della politica studentesca. La pervasività dell’ideologia, da molti esorcizzata come malattia primaria del dibattito pubblico, ha in definitiva lasciato spazio a una tendenza nichilistica che fa dell’utilitarismo più miope e dell’individualismo strafottente gli unici spazi di pensiero in cui agire, ammesso che ci si decida ad agire. E allora, dopo queste righe in stile “trova le differenze”, non resta che interrogarsi su cosa sia successo nel mezzo. È davvero auspicabile, nell’economia della partecipazione dei vari gruppi sociali alla vita democratica, la scomparsa dell’ideologia? L’immobilismo è una conseguenza diretta del trambusto assordante generato dal Sessantotto, o una strana commistione di poteri – nell’accezione foucaultiana di ragnatela di collegamenti e influenze – ha agito affinché si giungesse a ciò? O ancora, non è stata forse la conquista di spazi di democrazia e possibilità di essere rappresentati ad aver assopito gli studenti, in una condizione di relativa e apparente sicurezza? Ancora personalmente lontano dall’ottenimento di una risposta convincente, lieto di sottoporre i quesiti alla coscienza del lettore.

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