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L’ottimo sociale

Studiare ciò che è o ciò che dovrebbe essere? L’economia del benessere è la branca della scienza economica che si occupa di fornire criteri per valutare socialmente alternative allocazioni (cioè la ripartizione delle risorse tra diversi soggetti economici e/o tra diversi utilizzi) per cui grazie a questi criteri è possibile individuare diverse strategie che rendono massimo il benessere comune.

di Antonio D’Argenio

* “Bal au mouline de la Galette”, Renoir.

Laureato in Scienze Politiche, è docente di Diritto ed Economia, educatore Finanziario,  studioso di storia locale.

BENESSERE, SOSTENIBILITA’ E RIDUZIONE DELLE DISUGUAGLIANZE

Gli indicatori di benessere equo e sostenibile (BES) rappresentano uno strumento da affiancare a quelli di natura economica, ad esempio il PIL (prodotto interno lordo), per restituire una visione d’insieme più completa delle reali condizioni in cui versa la popolazione di uno Stato. In Italia si ritorna a parlare di benessere e torna, dopo 20 anni, promosso dall’ISTAT (Istituto nazionale di statistica) e dal MEF (Ministero dell’Economia e delle Finanze), il Forum internazionale sul “superamento del PIL”. L’iniziativa, inserita nell’anno in cui l’Italia ha presieduto il G7, ha l’obiettivo di promuovere a livello internazionale l’adozione di politiche per il benessere, la sostenibilità e la riduzione delle diseguaglianze. Si parla di “misurare ciò che conta davvero” dunque e non dare solo importanza ai numeri.

Ma di benessere si è già parlato, anzi si è sempre parlato, fin dagli anni ‘20 del Novecento, quando Arthur Cecil Pigou, economista inglese vissuto a cavallo del XIX° e XX° secolo, fu il primo a coniarne l’espressione. Il suo compito è stato quello di suggerire alle autorità governative di allora come raggiungere il cosiddetto “ottimo sociale” partendo da una distribuzione iniziale di risorse evitando valutazioni morali. La sua teoria si sviluppò nello stesso periodo di quando era idea molto comune che una economia di mercato decentrata fosse più efficiente di un’economia con un marcato intervento pubblico. Ricordiamo, d’altronde, che questi erano gli anni seguenti la grande Crisi del ’29. Discutere, però, di benessere comune pone un primo grande problema: la definizione di “benessere”. A cosa corrisponde? Alla felicità? Allo stato fisico e mentale? Alla ricchezza posseduta?

In microeconomia inizialmente il benessere veniva calcolato sull’utilità, cioè sulla soddisfazione che ciascuno otteneva dall’utilizzo delle risorse. Si possono immaginare i limiti presenti in tale concetto che si moltiplicano quando si fa riferimento ad una definizione collettiva dello stesso. Il benessere collettivo è raggiunto quando ogni individuo della società gode dello stesso livello di benessere (teoria egualitaria) oppure quando lo stesso livello è raggiunto da chi occupa una posizione di svantaggio nella società (teoria di John Rawls). Il problema dell’allocazione delle risorse può essere lasciato in mano al mercato oppure a carico dello Stato. L’economia del benessere, quindi, date queste poche premesse, può influire non poco sulle scelte politico-economiche di un Governo.

Il massimo benessere collettivo doveva coincidere con l’”ottimo paretiano”, concetto preso in prestito dalla teoria dell’equilibrio economico generale, e cioè quando in un sistema utilizzando tutte le risorse non è più possibile accrescere il benessere di un individuo senza peggiorare quello degli altri. Tuttavia, un tale principio non garantiva che la ricchezza venisse distribuita in modo equa. Infatti, Pigou, a differenza di Vilfedo Pareto, riteneva che un aumento del reddito delle classi povere avrebbe migliorato il benessere della collettività, per cui riteneva che un Governo sarebbe dovuto intervenire per realizzare il più possibile una forma di mercato con una concorrenza perfetta.

Vilfredo Pareto

Tali concetti portavano ad un bivio critico: lo Stato doveva assumere un ruolo paternalistico in modo da realizzare una uguaglianza distributiva imponendo il suo punto di vista oppure doveva perseguire obiettivi equitativi tramite politiche redistributive in nome dell’etica.

Lo Stato, comunque avesse scelto, avrebbe realizzato un sistema di imposte e sussidi tali da provocare reazioni nel comportamento degli individui e quindi la ricerca dell’equità avrebbe incontrato limiti dal punto di vista etico-sociale. Tali situazioni si ripetono anche nella nostra attualità con l’entrata in gioco delle cosiddette “esternalità” cioè effetti negativi o positivi provocati dall’attività di produzione o di consumo di un soggetto sull’attività di un altro. Nel linguaggio economico per esternalità s’intende l’inesistenza di un corrispettivo per il vantaggio o danno procurato dal primo soggetto nei confronti di altri soggetti.

 Come correggerle? E ’possibile correggerle? Diventa difficile correggerle e in questo senso esistono due teorie: una liberista che ritiene il mercato in grado di risolvere il problema da solo; l’altra, invece, ritiene che l’unica soluzione è l’intervento sanzionatorio o fiscale dello Stato.

Nel primo caso si crea un mercato delle esternalità per cui gli effetti da esterni diventano interni e quindi scambiati sullo stesso mercato, quelle positive con quelle negative. Massima fiducia nel mercato, idea di natura liberista che prende corpo dal Teorema di Coase (Nobel nel 1991). Il secondo caso, invece, vede la soluzione proposta da Pigou: poiché il mercato non riesce a correggerle lo Stato deve intervenire attraverso interventi fiscali, applicando nei confronti di chi ha creato l’esternalità negativa una vera e propria imposta in modo da compensare i costi sociali ed ambientali provocati. Da tale concetto nasce quindi l’imposta pigouviana.

Un costo pagato dai soggetti che producono inquinamento per unità inquinante esattamente uguale al danno marginale aggregato causato dall’inquinamento valutato al livello di inquinamento ottimale.

L’Economia del Benessere si costituisce come discorso scientifico, ora come allora, sulla base della filosofia etica utilitaristica basata sulla valutazione della bontà di un’azione in termini di bilancio tra sensazioni di piacere e di dolore. Nel corso del secolo scorso il carattere strettamente individuale e non collettivo del benessere, la sua misurazione in termini cardinali e la sua non facile confrontabilità, aggiunte alla presenza di un’eccessiva mescolanza di filosofia ed economia, ideologia e scienza furono alcune delle critiche che segnarono la “fine” della vecchia Economia del Benessere per far posto a teorie economiche molto più rigorose. Infatti, l’Economia del Benessere derivava i suoi tratti essenziali dalla fusione delle diverse teorie e filosofie dell’epoca: dal marginalismo e, quindi, dal principio dell’utilità marginale decrescente, dalla dottrina filosofica dell’edonismo che poneva il piacere quale fine della vita e principio regolatore della condotta umana, dalla filosofia giusnaturalistica che faceva scaturire la posizione di base di originaria uguaglianza di tutti e uguale capacità di raggiungere la felicità, dal sensismo (dottrina filosofica secondo la quale la sensazione era l’unica fonte delle conoscenze umane e dal carattere percettivo di felicità e dolori). Oggetto dell’economia diventa così il calcolo razionale del piacere e della pena, entità psicologiche misurabili.

Pigou dunque racchiuse in due postulati la definizione dello stesso che, eliminati i tratti filosofici, si vestiva di un connotato di misurabilità e, quindi, di perfetta confrontabilità: il benessere è composto di stati d’animo e dei loro rapporti; il benessere può essere posto nella categoria del più e del meno; indice più appropriato è quindi il reddito nazionale.

Vagone di Terza classe di Honoré Daumier

Una ricerca di tutte le cause che influenzano il benessere risulta essere un compito irrealizzabile e tale situazione era superata dall’autore teorizzando la necessità di considerare solo quella parte di benessere sociale che poteva essere misurato direttamente o indirettamente con la moneta. Tale benessere è definito economico. Uguale capacità di sentire, confrontare le soddisfazioni e possibilità di misurare l’utilità dell’individuo in termini cardinali divenivano così i pilastri, strumenti e obiettivi dell’Economia del benessere.

Il propugnatore più acceso della delegittimazione scientifica di tali pilastri fu Lionel Charles Robbins (altro economista inglese famoso per aver definito il concetto di “economia”) che, partendo dall’impostazione dell’analisi di Pareto (pur di qualche decennio prima rispetto all’opera di Pigou), nega il postulato di uguale capacità di soddisfazione e, quindi, confrontabilità delle utilità di Pigou e della filosofia utilitaristica ponendo le basi della Nuova Economia del benessere.

Sulla scorta della Grande Crisi del ‘29, si assiste, poi, ad una significativa svolta dello sviluppo della teoria economica che portò alla crisi dell’Economia Neoclassica e Marginalista e contestualmente alla nascita e sviluppo della Teoria Generale Keynesiana e del Welfare State di Beveridge. Secondo Pareto, dal quale prende le mosse la Nuova Economia del Benessere il cui criterio ha sostituito l’ordinamento per somma, l’utilità non è una proprietà fisica dei beni ma è l’attitudine di un bene a soddisfare determinati bisogni, quindi una grandezza soggettiva e psicologica non misurabile (e neanche necessario farlo).

Tutto ciò che occorre è che il consumatore sia in grado di confrontare diverse alternative di consumo e di esprimere delle preferenze rispetto a queste alternative. Tale approccio, alla base della costruzione delle “curve di indifferenza”, risulta abbastanza singolare se consideriamo che nonostante i suoi studi ed il suo percorso, Pareto abbia rifiutato un’applicazione matematica al calcolo della felicità diventando, invece, uno degli esponenti più convinti del liberismo.

Il liberismo classico del XIX° secolo, che teorizzava l’idea dell’equità di processo, ossia lo Stato quale garante della correttezza della competizione economica (ad es. impedendo il formarsi di monopoli e concentrazioni di potere economico) subiva profonde modifiche di tipo riformista e socialdemocratico che hanno ampliato i criteri dell’intervento pubblico. Ora lo Stato deve garantire l’uguaglianza dei punti di partenza, affinché tutti siano nelle condizioni migliori per partecipare alla competizione economica, e deve programmare politiche redistributive, per una maggiore uguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza quando si arriva a livelli socialmente intollerabili o lesivi della dignità umana. Dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso ad oggi, la confusione intorno alle politiche keynesiane e le ultime crisi economiche, l’incessante crescita da una parte e le contemporanee disuguaglianze distributive sempre più evidenti dall’altra, hanno dato inizio allo sviluppo di nuove, e alla resurrezione di vecchie teorie economiche, come la nuova macroeconomia neoclassica data alla luce da Robert Lucas (Nobel nel 1995), che sostiene il principio della “irrilevanza della politica economica”.

Nella letteratura economica degli ultimi vent’anni del XX° secolo, messa da parte la ricerca del benessere, emerge come essenza delle politiche redistributive una continua valorizzazione della libertà nelle sue diverse sfaccettature e interpretazioni, utile a  raggiungere una effettiva uguaglianza di risorse, beni primari e capacità fondamentali: un senso di responsabilità delle proprie scelte pervade questo spostamento di interesse dall’eguaglianza di risultati verso l’eguaglianza di opportunità. In questa situazione storico-economica, quindi, opportunità, scelta, libertà e diritti primeggiano in numerosi scritti di filosofia politica, economia del benessere e politiche pubbliche di matrice egualitaria; si cerca da più parti di “superare” il tradizionale modello di Welfare State. Il filosofo oxfordiano Cohen (1989) espone come non possa essere lecito per un Governo cercare di egualizzare il benessere delle persone: a parte le difficoltà, sia pratiche sia concettuali, di eliminare le ineguaglianze, il mero fatto di provare a farlo sembra troppo intrusivo, una violazione della nostra libertà e dei nostri diritti.

Il problema del benessere e della giustizia sociale nasce dalla condizione oggettiva di disuguaglianza e di scarsità relativa in cui viviamo e dalla conseguente impossibilità di giungere a una distribuzione di beni e delle risorse che accontentano tutti.

A partire dagli anni Cinquanta del XX° secolo si è aperto un vivace dibattito sull’equità e la giustizia distributiva che ha visto dialogare due mondi apparentemente lontani: quello filosofico e quello economico. Di sicuro abbiamo constatato che la realtà economica è lontana dai modelli teorici dell’Economia del benessere e quindi abbiamo capito che il mercato da solo non può realizzare l’ottimo sociale e che lo Stato non può risolvere il problema della redistribuzione solo tramite introiti fiscali per massimizzare il benessere della società. Potrebbe farlo con “imposte neutrali”, senza cioè influenzare i prezzi, ma ciò è impossibile in quanto occorrerebbe conoscere una infinità di informazioni degli individui e utilizzare strumenti fiscali perfetti, altrimenti altererebbe i prezzi ed i fattori produttivi. Il mercato, in questo modo, funziona non efficientemente realizzando i cosiddetti “fallimenti di mercato”.

La questione importante per una economia del benessere diventa allora il concetto di “equità” già presente in molti obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite). Tuttavia è fondamentale capire quale equità, quella finale che l’individuo può raggiungere o quella che si basa sui presupposti di partenza?

Possiamo rispondere a tale domanda utilizzando due teorie, quella del principio di Pareto secondo cui l’intervento dello Stato può essere considerato positivo se può essere migliorata almeno la posizione di un individuo senza peggiorare quella di un altro; oppure quella dell’egualitarismo di Rawls fondata sul concetto di giustizia sociale per cui il “contratto sociale” dovrebbe garantire a tutti un’uguale opportunità e se ci sono differenze sociali o economiche queste dovrebbero aiutare coloro che stanno peggio.

E siamo di nuovo punto e a capo!

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