Ad Aquara, tanto tempo fa, quando ero ancora un ragazzino e frequentavo la Va elementare o, forse, la prima media, mi capitò di vivere una storia che sembrava una favola, o forse lo fu per davvero. Ancora oggi, questa storia, è viva nella mia mente. I protagonisti sono: mio padre, un pettirosso e ovviamente io. Lo scenario è l’attuale percorso che dal paese, porta alla mia campagna.
di Vito Peduto
*Foto di Marzio Marino. Tramonto sul golfo di Salerno nel giorno dell’equinozio di primavera.
Laureato in Ingegneria Elettronica, è docente in pensione di Sistemi e Reti. È consulente in sistemi micro programmabili.
I RICORDI DI UN AQUARESE ATTRAVERSO GLI OCCHI DEL BAMBINO CHE FU
Aquara, disteso su una collina a croce bizantina ed esposto a mezzogiorno proprio al centro dei monti Alburni (negli Appennini campani), è un bel paese in provincia di Salerno. Ai piedi della collina scorre il fiume Calore, affluente del Sele, dove da ragazzi abbiamo imparato a nuotare: era il nostro lido detto “lido dei poverelli”.
Il centro è formato dalla piazza principale sul cui lato sud c’è un monumento ai caduti, dietro esso la chiesa santuario San Nicola di Bari e il campanile molto caratteristico. Dall’atrio della chiesa, che si affaccia verso ovest, si apre un panorama mozzafiato, verso il golfo di Salerno. Nelle giornate limpide e terse la vista si allunga fino all’isola di Capri. Dalle vicinanze della piazza centrale si dipartono, oltre al corso principale, un dedalo di vicoli caratteristici che portano in cima al paese, dove un antico castello, dimora anche di Ettore Fieramosca, si affaccia, a levante, su una tipica piazzetta antica, mentre, a ponente si controlla tutta la vallata fino al mare. A sud si distende il paese e a nord alcune abitazioni e poi la tipica campagna paesana. E’ proprio come recita un verso di una poesia, non ricordo più l’autore/autrice: “un ridente paesello disteso su una collina esposto a mezzogiorno ….”.
Insieme a mio padre, nei giorni liberi dalla scuola, specie a Natale, a Pasqua e d’estate, andavamo, a piedi, dal paese alla campagna e viceversa la sera. Automobili nemmeno a parlarne. Queste erano, per me, le cosiddette “vacanze”. Tanti di noi che vivevano solo dei prodotti della terra e poco altro, non avevano possibilità di fare viaggi o altro, come soggiorni al mare o in montagna; quasi tutti erano semplici contadini.
All’andata la strada era, ed è tutt’ora, in discesa, quindi abbastanza agevole, ma il ritorno era duro: una salita continua, a volte aspra. Spesso si camminava in compagnia di amici e conoscenti, vicini di campagna, e allora ci si stancava meno. Si chiacchierava, col fiatone e in dialetto, specie la sera, sempre delle stesse cose: “Che hai fattu oi ne Ginuè” (Genoveffa cosa hai fatto oggi?) “Aggiu fattu nu pocu ri terra pi metti/chiantà li fasuli, ma ìa tosta, avessi chiuvutu nu pocu, cheri pandoschi mancu cu lu picu si rumpianu” (ho preparato un po’ di terra per piantare i fagioli, ma la terra, era dura, avesse piovuto un po’, quelle zolle non si rompevano neanche con il piccone). “Tu ha zappuliatu l’uortu” (tu hai zappettato l’orto), “I fasuli e li mulignami comi so?” (i fagioli e le melanzane come sono?) “Chi ‘ngera cu ticu?” (chi c’era con te?) e così via. Due chilometri scarsi di viottoli, sentieri (carraru/i in dialetto) più o meno larghi e un po’ di strada provinciale, ancora non asfaltata e si arrivava alla “Tempa”: terra arida pietrosa e faticosa. Si lavorava sodo, quasi sempre manualmente. Ricordo che i miei genitori usavano delle zappe pesantissime forgiate da fabbri antichi e capaci. All’epoca vi erano diverse forge in paese. I fabbri, veri e propri artisti, plasmavano il ferro arroventandolo sui carboni resi ardenti da un grosso mantice manuale. Spesso si facevano aiutare da due martellatori che, alternandosi battevano il ferro tempificati dal ticchettio del martello del mastro sull’incudine. Si produceva un suono armonioso che sembrava prodotto da un’orchestra.
Nel periodo dell’aratura della terra, però, erano i buoi che tiravano il pesante aratro sotto il giogo, senza fatica, (almeno così mi sembrava). La loro possenza, descritta dai versi di Carducci: “T’amo o pio bove e mite un sentimento di vigore al cor mi infondi …”, a me, incuteva timore e rispetto. Caratteristici erano i nomi che davano alla coppia di buoi, sempre gli stessi: Giaantina e Palmarieddu. C’era, anche, qualche trattore e/o motocoltivatore, ma erano davvero pochi i possessori. La raccolta delle olive poi, era totalmente manuale. Ricordo il freddo dei giorni di novembre, dicembre e gennaio inoltrato: gli adulti avevano le mani, oltre che callose per le fatiche, piene di geloni. Le olive, si raccoglievano, da terra, una ad una, qualche uomo, con una pertica, batteva i rami per farle cadere. Io, ragazzino, però, ero addetto, principalmente, a cercare l’erba per gli animali e in particolare per i conigli. All’epoca ero diventato un esperto cercatore d’erbe, adesso farei fatica. Ricordo, però, che i conigli, tra le altre erbe, sono mangiatori di cicoria che mia madre, puntualmente, toglieva, scartava, dall’erba che avevo raccolto, per mangiarla con la famiglia; io, la verdura, in generale, la odiavo all’epoca.
In quegli anni, un giorno sì e l’altro pure, si mangiava verdura a mezzogiorno e a volte anche la sera. Ma tutto questo è un’altra storia, da approfondire in un’altra occasione; qui è solo per dare un’idea del contesto in cui, anche se un po’ confuso, si svolgevano i fatti della storiella che vi voglio raccontare. Dunque, torniamo alla storia. La scena è questa: durante il cammino, sempre a piedi, per andare in campagna dal paese e anche al ritorno, passavamo in una zona detta “sotto la croce”, appena fuori dal paese, dove, poco più avanti, anticamente, c’era un mulino ad acqua (detto ‘u mulinieddu), sulla sponda di un torrente, affluente, di “uaddoni fierru” (torrente Fierro). In questo luogo,sotto la croce, mio padre lasciava cadere a terra alcune briciole di pane. Era quel poco rimasto dalla nostra colazione che ci portavamo da casa: un pezzo di pane con un po’ di formaggio pecorino fatto in casa perché avevamo una capretta di nome ‘Nerina’. Anche in questo caso il nome non cambiava mai, e pensare che la capra era bianca! Dopo qualche passo mio padre si fermava a guardare cosa succedeva. Passavano pochi secondi, che, un uccellino col petto di un rosso vivo a volo radente beccava, furtivo, le briciole e fuggiva via con nel becco ancora una briciola, forse il pranzo per i suoi piccoli. Io seguivo la scena stupefatto. Il pettirosso si posava su un ramo di una quercia secolare nelle vicinanze del suo nido, si guardava intorno e con un salto entrava nel nido dove i suoi piccoli aspettavano stridendo a squarciagola e con la bocca aperta pronta ad accogliere il cibo.
Questo rito si ripeteva, con gli stessi movimenti, tutte le volte che passavamo per quel luogo. Poi un giorno mio padre lasciò cadere le briciole accanto ai suoi piedi e immediatamente l’uccellino arrivò a beccare senza paura; finché un giorno, meraviglia delle meraviglie, il pettirosso beccò direttamente dal palmo della mano di mio padre fuggendo al primo movimento impercettibile. Le volte successive il pettirosso si posava sulla spalla di mio padre, ormai lo aveva riconosciuto, aspettando che aprisse il palmo della mano e gli porgesse le briciole. Il mio stupore era totale. Si guardavano, mio padre e il pettirosso, ormai amici per sempre. Ero felice come non mai nel vedere quella scena ma, non me ne rendevo conto. Mio padre aveva il volto illuminato, attimi di vera felicità, restavamo, estasiati, in silenzio per pochi secondi davanti a tanta bellezza.
Tutto questo non ricordo quante volte si è ripetuto, ma è durato tanto tempo. Il prosieguo di questa storia, però, mi sconvolse quando, un giorno, arrivati in campagna, lungo la siepe che costeggia il sentiero che porta alla vecchia casetta degli attrezzi, mio padre mi insegnò a costruire le trappole per catturare gli uccelli. Questo, soprattutto d’inverno, quando gli uccelli fanno più fatica a trovare del cibo. La trappola consisteva in due pietre, di cui una piatta, tenute in equilibrio instabile da alcuni stecchetti di legno opportunamente intrecciaci a sostegno della pietra piatta. Al centro si mettevano alcune briciole di pane, o qualche granaglia, per attirare gli uccelli, a volte si ricavava una buca, asportando un po’ di terra, dal centro: in questo modo si catturava il malcapitato uccello vivo. Io non capivo, mi inquietava il fatto che un attimo prima, mio padre, addomesticava il pettirosso e poi catturava gli uccellini con queste trappole. Allora non riuscivo a dare una spiegazione, a capire il perché. Forse era la fame! Ma, qui viene il bello. Un giorno, dopo qualche ora che avevamo preparato diverse trappole, alcune con buco centrale, andai a vedere se qualche uccellino avesse abboccato e, meraviglia delle meraviglie, sotto una di esse scorsi, lo riconobbi subito, il pettirosso che mio padre aveva addomesticato. Cinguettava e si agitava impaurito nel buco della trappola. Lo liberai velocemente e lui, felice, mi svolazzò intorno sfiorandomi il viso, come se volesse baciarmi, non so quante volte ripeté il gesto; poi, cinguettando, mi salutò e volò via dai suoi piccoli che lo aspettavano. Io contento di aver liberato il pettirosso, che da allora chiamai: “Fortunato”, perché, per puro caso, era incappato nella trappola col buco, distrussi tutte le trappole che avevo preparato, insieme a mio padre, e da quel giorno non ne ho più costruite.
5 risposte su “La storia del pettirosso fortunato”
Ma che bel racconto, Vito!
Mi hai portato a rivivere momenti della mia infanzia…
Andare a piedi in campagna, tornare in compagnia ed ascoltare i racconti alleviava la fatica del cammino ed era un momento “social”haahah…
Scrivi, racconta, è bello leggerti!
I dipinti sono tuoi?
Ho letto tutto d’un fiato il breve racconto, scritto tra l’altro molto bene. Complimenti!
Si, sono ricordi di un tempo andato, perduto, una parentesi di vita spesso difficile, dura, spietata, per questo rievocare, tramandare, dà alla iniziativa una importante connotazione di “azione divulgativa” che le nuove generazioni dovrebbero abbracciare senza riserve. Beati quei posti in cui si sente ancora il cinquettio degli uccelli…dei pettirossi, perché no.
Una curiosità: ma il bambino chiese mai a suo padre circa la funzione delle trappole?
No. sono stati scelti dai responsabili
Dell’alveare.
Commovente.
Grazie, Vito
Bellissimo, leggendo questo racconto ho rivissuto un pochino della mia infanzia,ero bravo a “parare le chia’ncole”,a Felitto si diceva così, però usavamo una sola pietra piatta..Per ‘parare i lazzi” ,trappole a nodo scorsoio fatte con i crini di cavallo,ci voleva pero’ gente più esperta, soprattutto per strappare i crini dalla coda del cavallo senza prendersi un calcio in faccia.